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Andrej Tarkovskij uno sguardo umano…

Tu lo sai bene: non ti riesce qualcosa, sei stanco e non ce la fai più. E d’un tratto incontri nella folla lo sguardo di qualcuno – uno sguardo umano – ed è come se ti fossi accostato a un divino nascosto. E tutto diventa improvvisamente più semplice.

Andrej Tarkovskij

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cinema universale d’essai

ululato da Pralina alle ore 07:58 mercoledì, 02 agosto 2006

Ci sono dei luoghi che dovrebbero essere considerati “sacri” uno di questi è la sala cinematografica di altri tempi, quando i film venivano proiettati su pellicola.
Non che siano passati tutti questi anni (un paio di decenni) ma con le videocassette e poi i dvd (la cosiddetta rivoluzione digitale) la gente è rimasta molto di più a casa.
Il film è diventato un surrogato della televisione, e non un momento di socializzazione com’era in effetti una volta.
E’ vero, la pellicola dopo qualche passaggio si graffiava o si riempiva di granelli e di bolle (che tutto sommato suggerivano animazioni artistiche degne della Biennale di Venezia) e a volte il film s’interrompeva proprio quando il protagonista stava per essere ucciso, con grandi fischi del pubblico in sala… ma almeno dovevi uscire di casa. Esporti.
Già, perché se una volta frequentavi le sale cinematografiche, ti dovevi proprio esporre, e se eri uno di quei “maniaci” come li chiamava mia mamma, che vanno a vedersi le “porcherie”, dovevi andare alla cassa del cinema e chiedere un biglietto. La cassiera era aldilà del vetro, quindi il biglietto andava chiesto ad alta voce. Non c’era nessuno che ti sostituiva la faccia. Al massimo potevi alzarti il bavero e metterti un bel paio di occhiali da sole.
“Abbassati un po’ quando sei davanti alla cassiera!” mi diceva sempre mia mamma, con aria di chi la sa lunga “se no rischi che ti faccia pagare come un’adulta”.
Povera ingenua, la mamma, non è mai stata l’altezza a farmi passare da adulta (sono tappa e me ne vanto), ma un bel paio di tettine che a 12 anni premevano con prepotenza contro la maglietta, e quelle anche volendo non avrei potuto nasconderle.
Il cinema noi ce l’avevamo vicino a casa, era proprio brutto, più che altro sporco perché non pulivano mai. Ma a noi sembrava un luogo mitico, straordinario.
In televisione allora c’erano solo due reti, e per giunta in bianco e nero. In quegli anni passavano soltanto film in bianco e nero in tivù, tanto non si sarebbe notata la differenza. Il sabato mattina c’erano le comiche dei grandi Buster Keaton, Harold Lloyd, Charlot e Stanlio e Ollio. Mi mettevano una mano sulla spalla e mi dicevano “Ecco adesso mettiti qui e fai la brava!”.
Soltanto i film al cinema erano colorati e per noi ragazzi era un fatto eccezziunalo veramente!
Ricordo che per tutta la settimana facevano i film per tutti e un solo giorno la settimana quelli “vietati ai minori di 14 o persino 18 anni”, quelli dai titoli più fantasiosi tipo “Biancaneve e i sette onani” che i poveracci che andavano a vederseli, dopo avere trovato scuse in famiglia tipo “vado a trovare uno zio di Forlimpopoli che non vedo mai e che mi dispiace tanto di lasciare da solo”, entravano veloci come le schegge, gobbi, strisciando, mimetizzandosi coi muri, qualcuno volando, altri imitando l’uomo invisibile. Altri trovavano l’escamotage di entrare molto prima, portandosi dietro i popcorn e il binocolo, insomma fatto sta che quando c’erano le proiezioni hard nessuno entrava al cinema, erano già tutti dentro, con l’impermeabile e la mano sul pacco.
Noi ragazzi e ragazze andavamo a vederci i film “per tutti” alle proiezioni pomeridiane. Siccome ero una ragazzina molto rompiscatole, i miei meno mi vedevano in casa, meglio stavano, e così ogni scusa era buona per mandarmi al cinema come dalle suore o al luna park o a fare i compiti dagli amichetti o a confessarmi dal prete, insomma in qualsiasi altro posto potessi sparire per una mezza giornata.
Inutile dire che mi vidi tutti i film e i cartoni animati di Walt Disney, quelli di Bruno Bozzetto e Asterix. Ma anche Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Peter Sellers, e tutta la serie 007.
A quei tempi oltre al film cosiddetto di guerra o d’avventura e la commedia all’italiana, spopolava il genere western e mi vidi praticamente tutto quello che si può vedere di serie zeta dopo il grande Leone: filmetti che si potrebbero definire spaghetto western molto scotto, dai titoli “Puzzo di dollari”, “Il bello il brutto e l’arrabbiato parecchio” e cose così.
Quando c’era un nuovo film, e i nuovi film in provincia arrivano sempre quando in città li hanno già digeriti, ma in provincia sono sempre delle prime fantastiche, mi si poneva il problema “quale fidanzato ci porto se non mi accompagna l’amica del cuore”. Mi si imponeva la scelta tra Vincenzo e Roberto, con la ruota di scorta Francesco, a giorni alterni.
Poi c’era il vestito da mettersi, come alla prima di Jesus Christ Superstar. Una tragedia. Finii per mettermi un paio di pantaloni a zampa d’elefante con un paio di zatteroni, sembravo la nipotina dei Cugini di Campagna.
Al cinema non restavi mai da sola nemmeno volendo, ti trovavi talvolta un signore accanto che ti guardava con la coda dell’occhio fantasticando in religioso silenzio di possibili manovre a polipo che mai e poi mai avrebbe attuato pena l’inferno e la pubblica gogna di paese, a quel punto con l’amichetta del cuore c’era la possibilità di cambiare posto o di fare l’infamata al direttore del cinema.
Ma una delle cose più belle del cinema era il bar dove si andava a comprare le rondelle di liquerizia e i ghiaccioli, e ricordo che c’erano i gusti limone, anice e menta (e basta) che allora costavano (mi vergogno di dirlo, tanto da la misura del tempo) 50 lire. Oppure in alternativa i chewingum, che però a termine masticata, ti costringevano a manovre non molto ortodosse, tipo di appiccicarli sul retro della poltroncina davanti.
Smangiucchiare in sala è una vera libidine, lo sanno bene in India dove i film (la famosa Boollywood) durano anche 6 ore e la gente si porta di tutto in sala, anche il pollo con il riso al curry.
Ben altra cosa rispetto al farlo davanti alla tivù, che da un senso di tristezza indicibile. Ricordo com’ero felice quando riuscivo coi pochi spiccioli nella borsetta, a comprare una lattina di qualsiasi bibita e ad aprirla senza schizzare nessuno (una volta purtroppo è successo che ho fatto il bagno a quella davanti).
Gli anni sono passati, e nonostante i nostri traslochi, avevamo sempre un cinema accanto alla nostra casa, non so bene perché.
Così non mi persi mai una visione fino all’inizio degli anni 80, con l’amico gay che sbarellava per Jodorowsky e mi faceva una testa così con “The Fog” di John Carpenter. Dai soavi deliri di Nichetti ai film impegnati superpoliticizzati (le mattonate insomma) della Von Trotta e di Schlodorff sugli anni di piombo, ero sempre lì a mangiarmi le unghie. Certa di non avere capito proprio tutti i passaggi. Ma felice di avere  ampliato i miei criteri percettivi contro l’estetica borghese, ed essere pronta ad assorbire persino Tziga Vertov.


 


E anche quando mi trasferii a Firenze, scoprii la deliziosa sala Universale d’essai, dove venivano proiettati i mitici film di Belushi, quelli di Pietro Germi e Michelangelo Antonioni ma anche quelli der Monnezza, “Tarzoon la vergogna della jungla”, “Harold e Maude”, “Zabriensky Point”, “Woodstock”… dove quando entravi ti pareva d’essere nelle nebbie dei film di Fellini, perché tutti fumavano le canne in sala e la cortina del fumo a una cert’ora diventava così densa che la gente si doveva chiamare a gran voce e sbracciarsi per farsi riconoscere dall’amico entrato al secondo tempo.
Dopo tutte queste premesse, vedere un film o vederne un altro, perché all’ultimo l’avevano sostituito, non era la cosa più importante.
E nemmeno di finire a letto col proiezionista, quando sono stata molto più grandicella.

Ma la cosa più importante era di esserci, al cinema.
 
Pralina Tuttifrutti

*

CINEMA UNIVERSALE D’ESSAI.
mercoledì, 02 agosto 2006 | in : pseudo recensioni, telefollie, dura la vita, cinema universale
 

 

(foto tratta dalla copertina del libro di Matteo Poggi, Breve storia del cinema Universale)
 
 
Il fatto è che non ne posso più di accendere la  TV alle venti e trenta e dover scegliere fra “ TEO MAMMUCARI” accompagnato da tette e culo della deficiente brasileira di turno e  “ REAL TV” presentato dalla megafiga negra   che tutta igniuda si spatascia a pecora mentre presenta il disgraziato di turno che si spatascia, pure lui, ma non a pecora o per lo meno solo in senso figurato, a 220 chilometri orari contro un muro.
TEO MAMMUCARI??? Cultura moderna?? È moderna? Ma soprattutto è cultura? CULTURA? Allora io dico come Grillo! Voglio che mi rendano il significato delle parole! Lo rivoglio, è mio  cazzo lo rivoglio! Di diritto! Ridatemelo !  E in questo medioevo mediatico la mente vola per lidi più felici, e affiorano ricordi confortanti quando la sera si poteva andare in un posto fantastico e pieno di magia.
 
 
IL CINEMA UNIVERSALE DESSAI.
 
Il bello del cinema Universale è che non era un cinema, cioè almeno non lo era nel termine etimologico della parola. C’era tutto, lo schermo, le poltroncine, i corridoi, la cassiera e pure la maschera. Ma non era un cinema. Si, perché al cinema si va per vedere il film, all’Universale il film era solo il pretesto, la scusa, e anzi più il film era brutto migliore era lo spettacolo , perché lo spettacolo non era sullo schermo,ma era in sala.
Ricordo favolose serate passate a non guardare fantastici film  come “ il tempo delle mele” oppure “ college” film che nessuno di noi si sarebbe mai sognato di andare a vedere al cinema, ma come già detto l’Universale non era un cinema.
Chi non c’è mai stato non può capire, mi spiace io ci proverò a farvi capire cosa era l’Universale, ma… in fondo che vuoi spiegare? Vuoi spiegare come si entra in sala in vespa pagando un biglietto normale e uno ridotto?   
Ecco l’universale era così, la bigliettaia non si stupiva se si voleva entrare in sala con la vespa , bastava dare una valida giustificazione tipo ” non mi fido a  lasciarla in strada ho paura che me la rubino” e lei faceva pagare un biglietto intero per lui ( mille lire) e un ridotto ( cinquecento lire) per la vespa.
 Appena si spegnevano le luci poi iniziava la magia. Nella sala sembrava di essere in una scena di “ the fog la nebbia assassina!” bastava una boccata per essere già fuori di brutto. Si narra di  personaggi che nelle ultime file pensassero di essere Vietkong con i maledetti Yankie  che li volevano stanare col fumo.
 I commenti alla pellicola proiettata si sprecavano. Commenti tipo “ABBURRACCIUGAGNENE !!!”   abburraciugagnene era il rafforzativo verbale più diffuso  quanto si doveva incitare l’ignaro adolescente dell’ennesimo filmaccio americano a fare la prima mossa con la propria ragazza. A volte qualcuno del loggione (il loggione era alto 2 gradini) si metteva a far le ombre cinesi sullo schermo finche non riceveva una scarpa lanciata dalle prime file. Ho visto spesso uscire gente alla fine del film senza una scarpa, o senza tutte e due, quando la serata era molto movimentata. Insomma ogni sera era una festa, vicino all’ultimo dell’anno era consuetudine portarsi almeno una ventina di raudi per evidenziare le scene più significative del film.
 Poteva capitare di esagerare e allora in quel caso arrivava  “ la maschera” o meglio “ il maschera”.
“Il maschera “ era praticamente un uomo cubo. Alto uno e sessantacinque e largo uno e sessantacinque, aveva delle mani che sembravano le custodie delle mani di Gianni Morandi, ma nonostante la dimensione e la forza quelle mani non faceva quasi  mai male, erano quegli schiaffi amichevoli, quasi accompagnatori,  più per indirizzarti nella giusta direzione che per farti male. Per dirti.. bada, vai più in là.. che stai esagerando.
 Il maschera era amato da tutti e per dimostrargli   cotanto amore quando entrava in sala tutta la platea lo accoglieva con un simpatico coretto, stile domanda e risposta.
 Un gruppo domandava gridando: “ Come l’è il maschera??”   l’altro gruppo gli rispondeva   “ Buco!” seguiva la domanda: “ E per far rima??” risposta finale :” più buco di prima!!” seguiva applauso finale e standing ovation mentre il maschera usciva dalla sala, rosso come un peperone.
Non ho mai provato paura all’Universale, ne vergogna, neppure quando una volta  tutti mi presero a pacchine perché ero il solo a gridare battute fuori tempo. Mi sentivo un po’ in famiglia all’Universale, dove tutti si prendono un po’ in giro ma ci si vuol un gran bene.
 
Il “ cinema d’essai Universale” non c’è più, e  da un bel pezzo ormai, saranno almeno 15 anni, al posto suo c’è un tristissimo ritrovo per giovani trendy un po’ dandy con le scarpe di fendy . L’architetto che lo ha ristrutturato ha voluto mantenere il nome “ Universale”, ma la sua anima ormai  non c’è più. Tutte le volte che ci passo davanti mi viene una gran tristezza e un groppo alla gola, mentre sento nella mia testa in lontananza un grido che fa:  “ VAI ABBURRACCIUGAGNENE!! ”
 
 
Liberamente ispirato al post di pralina.   
 
Lavorini